A volte mi capita di pensare e fare, inevitabilmente, dei raffronti, sul mio diabete e quello di mia figlia Amelia. Il mio esordio nel 1997 e quello di Amelia nel 2016. Più di 20 anni di differenza e non ho dubbi, senza nemmeno pensarci, meglio adesso. Ma perché? Mi piacerebbe spiegarvelo.

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Nel 1997, la terapia insulinica era, per la maggior parte dei casi, via penna, anzi, nel mio caso, ho sfiorato con mano anche qualche siringa ! Quella che tanto faceva dire nei bagni dei Bar: “oddio questa è una drogata!” (a soli 12 anni! Pensa te!)

Nel giro di pochi mesi, le penne di insulina erano già la prassi per tutti i tipi di insulina, tranne le miscelate. Se dovevi fare la veloce e la lenta, avevi due opzioni; bucarti due volte o tornare alle siringhe (per carità, sceglievi di bucarti più volte con entusiasmo). La lenta era più torbida e occorreva agitarla dolcemente e cullarla con pazienza, prima di iniettarsela, e l’insulina, allora, si portava rigorosamente con la borsa termica e il ghiaccino. Questa, poi, una volta iniettata, durava massimo 6 ore , motivo per cui era veramente importante essere precisi negli orari dei pasti! Ciò mi imponeva una disciplina e un ritmo della giornata preciso e per niente flessibile, spesso pesante per una ragazza che si affacciava all’adolescenza.

Le misurazioni della glicemia erano solo capillari con glucometri che impiegavano 15 secondi per elaborare la glicemia! Un’infinità di tempo, a pensarci adesso!

E poi il tasto più dolente… l’attesa per poter mangiare (le insuline del tempo impiegavano 40 minuti per iniziare ad entrare in circolo) e la quasi totale impossibilità di mangiare fuori pasto. Salvo qualche ipoglicemia improvvisa, era difficile pensare di programmare una merenda, che non fosse qualcosa di più di uno yogurt o una mezza mela. A questo io ero ben abituata nella routine di casa, ma erano le uscite e i riti sociali i veri drammi!

Mai un gelato fuori con le amiche, la pizza sì, ma bisognava andare a mangiarla presto (cosa praticamente difficilissima da fare in estate). Niente birra o affini durante l’adolescenza, salvo qualche sgarro, da pagare poi caro durante la notte.

La vita era difficile, sì, ma era anche meravigliosamente bella per me. C’erano dei paletti, ma erano sottili e si riusciva a vedere oltre. Veniva richiesto a noi giovani diabetici una forza davvero grande e una disciplina immensa. Per me, che ero artista folle già da bambina, era una tortura atroce, a cui fui costretta ad abituarmi, modificando parte della mia natura. Non c’era scelta, allora.

Oggi, che dire, mi sembra di stare in paradiso. Non dico che la malattia non sia pesante e con tutte le sue solite “beghe” ma, con l’ausilio della tecnologia, la vita è molto più flessibile di un tempo. Gli orari, il cibo, i fuori pasto, se una sera non mi sento bene, posso saltare la cena. La glicemia visibile ogni 5 minuti tramite i sensori glicemici. Le insuline parecchio più veloci nell’agire! Non vivo più nell’angoscia del fare tardi, non poter partecipare ad un’uscita con le amiche, ad un matrimonio con serenità o che scada il tempo dell’insulina. Vivo questa serenità anche rispetto a mia figlia . Certo, come tutti, avrei preferito che avesse avuto una vita spensierata al 100% e senza diabete, ma dovendo fare con quel che c’è, sono contenta che lei abbia a disposizione tutti gli “aiuti” di questa epoca.

Mi auguro che le capiti sempre più spesso, come succede anche a me, di dimenticarsi di avere il diabete (almeno fino a quando non suona qualche allarme del sensore!)

E voi, di che epoca storica del diabete siete?

Avete voglia di raccontare la vostra storia e com’è cambiata ad oggi la vostra vita?

Scrivetemi e raccontatemi la vostra storia se vi va.

Ogni mercoledì vi racconterò la mia!

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