Sono diabetico dalla nascita, cioè da 38 anni. Le ho provate tutte, dall’insulina suina a quella umana, c’ero quando il glucometro costava circa 1 milione di lire e l’insulina l’aveva solo il Vaticano. Potrei fare la storia del diabete, e dico che un dottore per quanto bravo sia, se non è diabetico (diabete mellito), non può curare bene il diabete. Ogni visita che vai a fare dal diabetologo o dall’endocrinologo, ti fanno gli esami e ti dicono: “fai due unità in più o in meno etc etc…” ma troppo lunga da scrivere.

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Comunque, il diabete anche se lo curi, ti distrugge lentamente, posso garantirvi, denti, retinopatia, occhi e nervi. Inoltre, ci sono i medicinali che ti addormentano il cervello, poi tante altre cose che non ricordo. I dottori dicono di fare, per esempio, 10 unità prima di mangiare ma io, a mie spese, le faccio dopo mangiato. Così riesco a calcolare l'insulina che mi serve per quello che ho mangiato e non dev'essere per forza 10 unità, poi io con 3 o 4 punture, come dicono loro, non ce la faccio. Solo con il sacrificio delle glicemie, cioè ogni 3 ore, e l'insulina sempre con te, puoi curare il diabete e fare una vita più o meno normale. Se sei in giro e vuoi un gelato, lo mangi, ma ti fai 7 unità. Non è obbligatorio seguire quelle teorie dei medici, se per affrontare la vita ti servono 10 punture al giorno fai 10 punture.

Carissimo,

la tua lettera mi apre la mente a mille riflessioni. In primis, una che mi sta molto a cuore, ovvero la medicina narrativa. L’importanza di raccontarsi e raccontare un vissuto legato ad una malattia (sciogliendo importanti nodi legati ad essa), dell’accettarla (che non sempre è collegabile alla quantità di anni che si è ammalati) e infine il valore del dialogo tra medico e paziente.

I diabetici di lunga data come me e quelli con una carriera ancora più longeva come la tua, avrebbero tanto da raccontare ai “nuovi arrivati”. Soprattutto, riguardo ai progressi del diabete, grazie alla tecnologia. Quanto ci hanno migliorato la vita? A mio avviso, tantissimo. Guardo mia figlia di 4 anni, penso a me da piccina e non ci sono davvero paragoni!

Tu non ne fai menzione, però, e nella tua lettera parli principalmente del peggio. Ti riferisci alla possibilità di complicanze e alla tua difficoltà nel farti capire da un medico, poiché sembri convinto che la condizione del malato possa capirla solo un altro malato. Non credo sia così, sai? E penso sia una cosa positiva!

Altrimenti, dovremmo dividere la società tra sani e malati, e vivere “tra noi che ci si capisce“. Per fortuna, non esistono queste separazioni (anche perché chi lo dice che l’assenza di malattia sia sinonimo di felicità assicurata?). Sarà banale a dirsi, un po’ stucchevole e romantico, ma la differenza la fa l’amore. Qualcuno che ti ami e ti stia vicino, un medico che, non dico ami te, ma almeno il suo lavoro, e te lo dimostri ascoltandoti. E la cosa più importante, il tuo amore per te stesso, che prescinde dal tuo stato di salute. Non credo sia mai una buona idea nascondersi e fuggire da sé stessi. Suppongo, che se non ti senti di dare ascolto al tuo medico, non sia perché ti dà cattive indicazioni, ma perché non ne hai voglia, oppure perché è da cambiare. Forse non va bene per te (non riesce ad adeguare la terapia alle tue necessità/stile di vita), nonostante siano passati molti anni dalla tua diagnosi, sembra che tu abbia ancora molta difficoltà ad accettare la malattia e a confrontarti con tutto quello che comporta.

È la solita storia del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. In questo hai fatto bene a scrivermi, perché siamo agli opposti, io adoro vedere la parte piena. E mi auguro, sempre, che nella parte piena ci sia champagne, anziché acqua!

Non perché io sia migliore di te, intendiamoci, anzi, probabilmente il contrario. Ma perché ho deciso che, non essendo certa che ci saranno altre vite oltre a questa, io, nonostante tutto ho deciso di essere felice, ora, in questa vita, anche se un po’ disgraziata. E mi sono organizzata così: ho cercato un medico umano che mi capisce, mi ascolta, e insieme formuliamo una terapia consona al mio personale stile di vita.

Ho afferrato tutto ciò che la tecnologia potesse offrirmi per alleggerire il mio carico di pensieri glicemici ed ho imparato a parlare di diabete, ad esprimermi e a raccontarmi. Anche quando avevo cose tristi da dire. La tristezza fa parte della vita, per questo accolgo quella patina di melanconia mista a rassegnazione che trapela dalla tua lettera, che esiste anche dentro di me a volte.

Ma ho voglia di dirti a gran voce che puoi andare avanti e rendere la tua vita splendente e piena di amore anche con quella grande “rottura di scatole”, che ci troviamo a vivere tutti i giorni. Perché nella lettera non hai mai parlato di te, dei tuoi interessi, delle tue doti, di ciò che ami e che sei.

Credo che tu sia molto altro oltre al diabete e io come te vorrei tirarlo fuori tutto questo “altro” (che si spera siano doti meravigliose, non mi fa scherzi eh!). Bisogna imparare ad amare questo compagno da cui non possiamo divorziare, perché se non troviamo un modo per conviverci, allora diventa come avere un marito insopportabile e la suocera in casa.

Davvero impossibile! Per questo ti dico: Maledetto diabete! Non ci avrai!

Daje Giovanni,

Io sono con te.

Un abbraccio

Elisa

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