Non so se cominciare dal “qui e ora”, cioè dal fatto che mi trovo in un hotel aspettando che mio marito mi raggiunga per una riunione associativa dove io, “finta” donna in carriera, lo aspetto con il mio abitino nero stretto in vita e una bella spillo che lo chiude. Ma nessuno sa che sotto quel vestitino nero c’è una macchinetta di holter che misura i miei battiti, registra il mio cuore, la mia pressione arteriosa e “si assicura” che sia tutto nei limiti “non normali” della norma.

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Ecco perché’ dico che sono una “finta” donna in carriera, perché’ nessuno sa cosa c’è sotto i miei abitini neri dal lunedì al venerdì. Nessuno sa cosa c’è sotto la mia pelle, il mio sangue. Nessuno sa che sono una donna ai limiti “non normali” della norma. Perché’ comunicarlo al lavoro potrebbe significare discriminazione.

Adesso ve lo dico io che c’è sotto i miei abitini neri, ci sono due reni che funzionano al 40%.

A 8 anni, mentre mi divertivo nell’aia davanti casa (si chiamano così in “bozzanello” gli asfalti davanti le case), sono caduta in un fosso avvelenato da tarponi e sudiciumi e mi sono presa una bella infezione che mi è costata tutta la mia vita.

Non ho mai visto mio padre piangere ma l’ho sentito piangere la sera che, accompagnandomi con un’ambulanza da Pisa all’Ospedale pediatrico di Genova (Gaslini), gli hanno detto: “È grave, non sappiamo se sopravvivrà”.

Quel dolore, legato al sentire mio padre piangere, senza nemmeno poter girare la testa per guardarlo negli occhi e dirgli – “Papà grazie per esserci, ti voglio bene” non se n’è mai andato, anzi si è solidificato come un masso, come il piombo. È diventato il mio lago di piombo. Perché adesso che ho un figlio anche io lo capisco che vuole dire.

A questo dramma, sono seguiti giorni di dolore, di paure, di altri drammi, di amore lontano – mia madre che non poteva rimanere con me insieme a mio padre in ospedale perché solo uno dei due genitori era ammesso a causa dello spazio ridotto della camera.

È seguito un anno di dialisi, di aghi grossi come spighe che mi penetravano il braccio, di spine che mi penetravano il cuore, di creatininemie alle stelle e di pressioni arteriose stellari.

Un giorno il miracolo. Il miracolo parziale, il miracolo del medico che dice: non sappiamo perché e come (forse le preghiere di mamma e papà) ma la bambina fa di nuovo la pipì e finalmente può essere dimessa per venire a fare la dialisi 3 volte a settimana. La bambina dovrà lasciare i suoi compagni di scuola all’ora della ricreazione dopo aver mangiato una banana (e non una banana e un pezzettino di pane perché la dieta aproteica necessaria a salvaguardare quel minimo di capacità renale rimasta non permette di “giocare” nemmeno con 2g di proteine in più).

Ditemi: le 3 volte di dialisi a settimana senza speranza di uscirne cosa vogliono dire per voi? Guarigione o Condanna?

Non poter mangiare una pizza con gli amichetti, dover prender due antipertensivi al giorno per controllare la pressione arteriosa dall’età di 8 anni vuol dire Guarigione o Condanna?

Allora ve lo dico io: vuol dire tutte e due. La mia guarigione è stata la mia condanna e la mia condanna la guarigione, il miracolo parziale.

Adesso, oggi, non saprei che cosa sarebbe la mia vita senza provare la pressione arteriosa 3 volte al giorno, senza mangiare quasi aproteico e sentirsi in colpa nei giorni in cui si “sgarra”, senza fare le analisi renali ogni 3 mesi per confermare che si si può ancora andare Avanti.

Non so cosa sarebbe la mia vita, senza vedere i “miei bambini” in pediatria lavorando come volontaria il sabato mattina, per restituire un briciolo dell’amore che ho ricevuto quando sono stata ospedalizzata quasi un anno.

Non so cosa sarebbe la mia vita, senza camminare con holters, apparecchi di pressione e diete restrittive per conservare il più a lungo possibile quel po’di funzionalità renale rimasta.

Quello che so è che sono orgogliosa di quello che sono, della voglia di vivere che la mia malattia cronica mi ha dato, del desiderio di aiutare gli altri che mi ha lasciato e dalla positività che ogni giorno mi accompagna.

Quando mio figlio mi dice: “Mamma non ti arrabbiare che ti fa male alla salute”, so che questo esserino prezioso all’età di 3 anni, che ho voluto con tutta me stessa ancora una volta rischiando la mia salute, ha già capito quali sono le fragilità della sua mamma.

Ma la sua mamma indossa vestitini neri per nascondere, la sua mamma è il frutto di un miracolo parziale. È la condanna guarita e la guarigione condannata. È la voglia di fare tutto con queste macchinette attaccate al corpo, con quest’anima che soffre, gioisce, teme e restituisce tutti i giorni.

A tutti coloro che hanno avuto il dono di una malattia cronica, siate orgogliosi di chi siete, non abbiate paura di condividere, di scegliere. La vostra missione non è solo quella di conservarvi ma di plasmare il mondo e i valori intorno a voi.

Buona vita,

Manuela

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Cara Manuela,

ho voluto fortemente la tua lettera in questa rubrica perché, pur non parlando di diabete, in realtà ne parla. Sotto la dicitura “malattia cronica “siamo in tanti, purtroppo, e accomunati tutti dal “è per tutta la vita“, quella frase che ci viene detta dai medici, a volte con facilità, ma che scende giù per lo stomaco come fosse una grande pietra lavica, e ci fa male.

Il vestitino nero che ci racconti sembra la divisa da super eroe, da donna in carriera, mamma, sognatrice e altre mille cose che sei e sei in grado di fare, oltre tutto.

Oltre il tutto. I valori “non normali” che però rientrano nei limiti e, in qualche modo, ti servono per andare avanti, ci accomunano (con noi diabetici) non sai quanto! Una vita segnata dai numeri e a cui sembriamo condannati a sottostare, a volte, con grande fatica. Eppure, nonostante la vita sia complessa, cerchi di fare di tutto per tutelarla allo scopo di proseguire i tuoi obiettivi: Tuo figlio, i bambini di cui ti occupi come volontaria, l’amore, il lavoro. Ci hai raccontato tutto quello che hai dovuto subire da bimba a causa di un inciampo e una caduta, imprevedibili, ma allo stesso tempo così cruciali per il resto della tua esistenza. Nonostante ciò, tu, la vita la prendi a morsi più di qualunque altra persona, e te la godi, anche se significa guadagnarsela ogni tre mesi. Con sacrifici alimentari o apparecchiature attaccate alla pelle. E ti capisco bene! Cosi come si capisce che la tua anima e i tuoi bei progetti vanno oltre i limiti del tuo corpo. Sono più grandi del tuo preziosissimo involucro.

Ti interroghi su guarigione o condanna, ma poi sai perfettamente che sono entrambe. Anche noi diabetici, non guariamo facendo l’insulina ma, per vivere, siamo costretti (la condanna) a farla per sempre. Non è piacevole, non è una soluzione, ma ci serve per vivere, per essere qui, per sperare in un giorno in una cura ma nel frattempo goderci le cose che abbiamo e di cui, forse, siamo consapevoli più degli altri. È questo che tu ci esorti a fare tramite la tua lettera e per questo io la trovo di fondamentale importanza nel significato, ovvero, vivere ed essere orgogliosi di noi stessi, senza fermarci, solo alla nostra migliore conservazione fisica, ma a migliorare anche il mondo con quello che abbiamo imparato e sentito tramite la dolorosa esperienza della nostra malattia. Quella che si chiama sensibilità, attenzione, delicatezza verso l’altro, dare valore ad ogni attimo della nostra esistenza, essere felici dei momenti in cui si sta meglio, dando importanza alle cose veramente rilevanti senza farsi rapire continuamente da inutili distrazioni o ansie. Tutto ciò che “sanno“ le persone che portano il peso della cronicità, è vero, è come dici te, è un tesoro che va donato al mondo per renderlo un posto davvero migliore, e per dare un senso anche alle sofferenze passate, che siano, dopo tanta fatica, un dono d’amore per l’umanità.

Grazie Manuela.

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