Quando ho scoperto del diabete di mia figlia ero a casa. In quel luogo che io reputavo sicuro e protetto, ho perso tutte le mie certezze. Aspettavo che mia figlia facesse pipì senza pannolino. Aveva solo 20 mesi. Aspettavo la pipì per misurare il glucosio e i chetoni nelle urine perché rabbrividivo all’idea di farle una misurazione capillare. Bucarle un dito. Quando venne fuori la solita cascata di pipì, lei stava mangiando.
La striscetta divenne coloratissima senza alcuna esitazione e senza alcun tempo di attesa.
Mio marito piangeva. Non lo avevo mai visto piangere. Io, che mi sentivo in qualche modo responsabile, ho preso in mano la situazione.
Avevo paura che Amelia potesse andare in coma e come una furia ho preso tutto, cane compreso, e siamo partiti per l’ospedale. Amelia in macchina rideva e mi guardava felice come sempre. Io ho chiamato mia madre al telefono e per la prima volta nella mia vita ho detto: Amelia ha il diabete.
Da quella striscia colorata, da quella frase, da quella corsa in ospedale piangendo, è cambiata la nostra vita.
La mia, per la seconda volta. Vivere due esordi di diabete nella stessa vita, mi sembrava insopportabile. Poi, non si sa come, la vita, la natura, il cuore, il sistema complesso delle brutte cose, fa un po’ di pulizia negli angoli del tuo dolore e le cose iniziano a migliorare.
Ricominci a vedere quello che ti circonda e ad avere speranza nel futuro. Tuo e di tua figlia. Della tua famiglia. Delle persone che ti circondano. E inizi a respirare fino in fondo come una volta. Ma diverso. Così come è avere il diabete. E, seppur con fatica, ringrazi ancora la vita.