Quando ti dicono: “Il diabete è una malattia cronica” in realtà è un modo tecnico per dirti facile che è per sempre. Per sempre fa male e brucia più dell’alcol sulla ferita. Ti viene dato un pacchetto per la vita e devi aprirlo e smontarlo pezzo-pezzo per capire che ne sarà di te da quel giorno in poi. Un po’ come il più complicato dei mobili Ikea.
Ridere è la prospettiva più lontana da immaginare. Si passano varie stagioni prima di poter tornare a ridere di te e di quel che ti è toccato in sorte.
Eppure, è provato, che anche i più scoraggiati alla fine riescono a ridere di sé stessi. Sembra un meccanismo di sopravvivenza che funge da pulizia dell’anima. Ci permette di stare meglio.
Quando ho scoperto il diabete tipo 1 di mia figlia, sapevo già di cosa si trattasse poiché io ne ero affetta/afflitta da più di 20 anni. Ciò non mi ha dato una scorciatoia nell’elaborazione del dolore e, di fronte allo sconforto, mi sono trovata comunque impreparata.
Ma due cose le avevo imparate dalla mia esperienza e mi sono tornate utili: si può essere felici anche da malati; lo stato di malattia non preclude il nostro modo di approcciarci alla vita. Quello è sempre di nostra esclusiva responsabilità.
Dopo qualche mese di pianto e disperazione nell’angolo della mia cucina, ho deciso di buttar fuori tutto quello che avevo dentro, con tutta la mia disperazione e, a poco a poco, e piano piano, ne sono venuta fuori.
Ad un certo punto, sono riuscita a trovare anche angoli di umorismo tra un cambio set e una puntura. Le risa della disperazione, dell’esasperazione e dello sconforto che, ad un tratto, diventano tragicomiche, sono un segnale di accettazione. Perché credo sia insito in ognuno di noi la ricerca della risata.
Anche oltre tutto il buio della notte.
Voi, ce la fate già o ancora non ci riuscite a tornare a sorridere?
Scrivetemi e raccontatemi la vostra storia se vi va.
Ogni venerdì vi racconterò la mia!