La partecipazione ai gruppi di cammino migliora la salute senza effetti collaterali.

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Premesso che qualsiasi attività fisica è meglio della sedentarietà, è però ancora più efficace se praticata ad alta intensità, questi i risultati di uno studio canadese pubblicato sulla rivista Annals of Internal Medicine che ha coinvolto 300 adulti sedentari e obesi per valutare gli effetti della quantità e dell’intensità dell’esercizio fisico sul grasso addominale e sulla tolleranza al glucosio.
I partecipanti, uomini e donne, sono stati suddivisi in modo casuale in 4 gruppi, un gruppo di controllo sedentario e tre gruppi ai quali sono stati assegnati esercizi di diverso grado per intensità e quantità: mezz’ora di camminata lenta, un’ora di camminata lenta, mezz’ora o poco più di camminata veloce.
Dopo 6 mesi che prevedevano 5 allenamenti la settimana, tutti i soggetti appartenenti ai 3 gruppi che seguivano un programma di allenamento avevano ottenuto una riduzione del grasso addominale ma solo quelli arruolati nel gruppo della camminata veloce mostravano anche una riduzione dei livelli di glucosio.L’esercizio fisico a bassa o ad alta intensità porta dunque ad una perdita di peso ma solo quello ad alta intensità permette di ridurre i livelli di glucosio nel sangue, il che, nel lungo periodo, potrebbe contribuire a ridurre il rischio di diabete di Tipo 2.
I ricercatori puntualizzano che lo sport ad alta intensità (camminata veloce) determina benefici sui livelli di glucosio nel sangue grazie al lavoro dei muscoli che consumano buone quantità di zuccheri durante l’esercizio fisico.
Lo studio conferma la relazione tra quantità e intensità di attività motoria. Inoltre, chi si è allenato con maggior sforzo fisico, oltre alla perdita di peso corporeo e alla riduzione dei livelli di glucosio, ha avuto un miglioramento più evidente dal punto di vista cardiovascolare. Il livello di intensità nell’allenamento sportivo va calibrato dopo un’accurata visita medica, in base alle condizioni fisiche e di salute di ciascun individuo.

Fonte: R Ross et al. Annals of Internal Medicine. 2015;162(5):325-334.

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